dicembre 2022

RIPARTO DI GIURISDIZIONE - GIUSTIZIA SPORTIVA/GIUSTIZIA STATALE:

LA PAROLA ALLE SEZIONI UNITE

 di Enrico Romano*

La cd. “giustizia sportiva”  rappresenta  lo strumento di tutela per le ipotesi in cui si discute dell'applicazione delle regole sportive, di contro sempre quella statale è chiamata a risolvere le controversie che presentano una rilevanza per l'ordinamento generale, concernendo la violazione di diritti soggettivi o interessi legittimi. Contravvenendo  ad una generale prassi nella redazione di una nota  ad una pronuncia di merito o legittimità, per commentare l’interessante sentenza  delle Sez. Unite della Corte di Cassazione (del 2 febbraio 2022 n.3101) si è ritenuto di utilizzare  come incipit  la    lapidaria   affermazione sopra riportata che leggesi nella citata pronuncia. Ciò non  per esigenze sistematiche , ma  perché la trascritta  affermazione esprime, con l’efficacia della sintesi, il filo conduttore dell’intera sentenza, con cui la S.C.  intende chiaramente  rimarcare la linea di  confine tra l’ordinamento sportivo e quello statale.  

   La vicenda contenziosa sottoposta, per l’appunto,  all’esame delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione è scaturita dal ricorso proposto dal C.O.N.I. avverso la sentenza n. 2320/2020  con cui il Consiglio di Stato  aveva ribaltato la decisione del T.A.R. Lazio  dinanzi al quale era stata impugnata la decisione del Collegio di garanzia dello Sport, resa a conclusione  dei reclami interni previsti dall’ordinamento degli associati adito dal Sig. (omissis) inizialmente eletto dall’assemblea degli associati dell'Associazione sportiva dilettantistica Tiro a segno nazionale della sezione (omissis)    e poi escluso dalla carica de qua ,   per la ritenuta sussistenza di  un motivo ineleggibilità riconducibile al rapporto di lavoro subordinato con la medesima sezione TSN. Il Consiglio di Stato riteneva, così, che la controversia relativa alla ineleggibilità all'incandidabilità o all'incompatibilità a componente di un Organo (di un'articolazione territoriale) di una federazione sportiva non  sia riservata al giudice sportivo, ma rientri nella giurisdizione dello Stato. Più precisamente, il Consiglio di Stato evidenziava che tale controversia,    per l’art. 133, comma 1, lettera z), cod. proc. amm.,  sia riservata alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo e tanto perché  riservate alla giustizia sportiva sono unicamente le controversie in cui si discute dell'osservanza e dell'applicazione delle regole tecniche riguardanti il corretto svolgimento della prestazione agonistica o la regolarità della competizione (per tali dovendosi intendere le "norme regolamentari, organizzative e statutarie finalizzate a garantire il corretto svolgimento delle attività sportive"), e le controversie su provvedimenti disciplinari adottati dagli organi sportivi disciplinari, riguardanti l’irrogazione di provvedimenti punitivi nei confronti di atleti, tesserati e compagini sportive. Ben vero, il ricorrente (escluso) aveva adito il T.A.R. Lazio lamentand,  tra l'altro, che la competenza a decidere sul reclamo avverso i risultati elettorali si sarebbe dovuta attribuire alla Commissione di disciplina d'appello, non derogabile né modificabile da deleghe di sorta, e che il procedimento di adozione della decisione sul reclamo si era svolto senza rispettare le garanzie processuali e del contraddittorio previste dal codice di giustizia sportiva del C.O.N.I. Sostenne , nel merito, il ricorrente  la non sussistenza di causa di  ineleggibilità dal momento che il rapporto esistente con la sezione Tsn di (omissis) non era qualificabile come lavoro subordinato ma come collaborazione coordinata e continuativa. Il T.A.R. Lazio, (nella resistenza del Coni e dell'Unione italiana tiro a segno (Uits)  dichiarò  il ricorso inammissibile per difetto di giurisdizione, in applicazione della regola di riparto di cui al Decreto Legge n. 220 del 2003, articoli 1, 2, 3 conv. dalla L. n. 280 del 2003, come interpretati dalla sentenza della Corte costituzionale 11.02.2011, n. 49.   Di qui il ricorso per cassazione proposto dal  C.O.N.I. affidato a due motivi: con il primo viene  denunziata la violazione o falsa applicazione degli articoli 24, 103 e 113 Cost., Decreto Legge n. 220 del 2003, articoli 1, 2 e 3 come convertito e dell'articolo 133 cod. proc. amm., stante il difetto assoluto di giurisdizione per essere la controversia instaurata dal (omissis) riservata alla cognizione degli organi di giustizia sportiva; con il   secondo motivo il C.O.N.I.  denunzia la violazione o falsa applicazione delle medesime norme per eccesso di potere da sconfinamento e per violazione del vincolo della cd. pregiudiziale sportiva, avendo il Sig.(omissis) adito il Tar direttamente impugnando l’atto di delega in ragione del quale la commissione di disciplina aveva esercitato le funzioni a essa conferite dal commissario straordinario dell’Uits, senza tuttavia prima censurarlo dinanzi agli organi della giustizia sportiva.

Le Sezioni Unite della Cassazione, nel  ritenere  il primo motivo infondato, evidenziano come   il Consiglio di stato, abbia correttamente inquadrato la fattispecie sotto il profilo normativo. Ed in vero,  dopo aver sottolineato che secondo la giurisprudenza anche costituzionale, sono riservate alla giustizia sportiva le controversie in cui si discute dell’osservanza e dell’applicazione delle regole tecniche, riguardanti il corretto svolgimento della prestazione agonistica o la regolarità della competizione, per tali dovendosi intendere le "norme regolamentari, organizzative e statutarie finalizzate a garantire il corretto svolgimento delle attività sportive", e le controversie su provvedimenti disciplinari adottati dagli organi sportivi disciplinari, riguardanti l'irrogazione di provvedimenti punitivi nei confronti di atleti, tesserati e compagini sportive, ha giustamente  ritenuto che, per i loro effetti, tali controversie restino, dal punto di vista statale, irrilevanti (arg. da Corte Cost. n. 49 del 2011) il Consiglio di Stato ha affermato che, invece, la controversia in cui si contesti l’elezione a una carica sociale di una federazione sportiva, per ineleggibilità, incandidabilità o incompatibilità, non è riservata agli organi di giustizia sportiva, e dà accesso alla giurisdizione statale, in quanto in questo caso non si discute del corretto risultato di una competizione e, dunque, dell’applicazione di una regola tecnica, ma della legittima investitura di organi interni di quella speciale associazione. In tale caso non si tratta di controversie irrilevanti dal punto di vista giuridico generale, perché l'ordinamento ritiene invece rilevanti le vicende strutturali interne delle formazioni sociali (cfr. articoli 14 c.c. e ss.), e il fatto che tali formazioni siano espressione del principio di libertà associativa non impedisce che singoli loro atti possano restringere ultra vires sia l'effettiva capacità di concorrere alla vita associativa dei singoli (specialmente quando questa possa produrre effetti esterni sulla loro capacità di relazione), sia la distribuzione di responsabilità esterne,

dirette o indirette, anche degli individui che vi si associano o riferiscono.

Tale puntuale  ricostruzione, è – tuttavia- censurata dal C.O.N.I.    che mostra di ritenere  la vicenda dedotta in giudizio alla stregua di una  “vicenda strutturale interna”, donde fa discendere  l’applicazione di norme regolamentari organizzative e statutarie dell’ordinamento sportivo e della sua articolazione, attinenti alla vita interna delle strutture federali, sicché, limitate al detto ambito, esse non potrebbero esser considerate rilevanti nell'ordinamento giuridico generale, rimanendo confinate nell’autonomia riconosciuta all’ordinamento sportivo dalla Corte costituzionale. Le Sezioni Unite , nel disattendere la prospettata argomentazione, richiamano (oltre agli  orientamenti espressi in Cass. Sez. U. n. 32358/18, Cass. Sez. U n. 29654/20, Cass. Sez. U n. 4850-21, Cass. Sez. U. n. 1214921, Cass. Sez. U n. 30714/21) la nota pronuncia n. 49 del 2011 con cui il  “Giudice delle Leggi”  ,  ebbe a sottolineare  che nel quadro della struttura pluralista della Costituzione, orientata all’apertura dell’ordinamento dello Stato ad altri ordinamenti, l’ordinamento

sportivo è da considerare uno dei più  significativi ordinamenti autonomi, con i quali quello statale viene “a contatto” :  il riconoscimento da parte   dell’ ordinamento giuridico statuale dell’autonomia dell’ordinamento sportivo nazionale implica, tuttavia,  che trattasi di autonomia   circoscritta   all’osservanza e applicazione delle regole tecniche, oltre che naturalmente sul piano disciplinare, ivi ricompresi l’accertamento e l’irrogazione delle sanzioni disciplinari sportive. Le Sez. Unite della S.C. con la pronuncia in commento non mancano di evidenziare che   in successiva pronuncia (Corte Cost. n. 160/2019), la Corte Costituzionale , nell’individuare l’esatto confine tra i due ordinamenti, aveva stabilito che gli eventuali collegamenti "devono essere disciplinati tenendo conto dell'autonomia di quello sportivo e delle previsioni costituzionali in cui essa trova radice", ma anche del limite necessario al bilanciamento dell’autonomia del suo ordinamento con il rispetto delle altre garanzie costituzionali che possono venire in rilievo.  Tra dette garanzie  rientra , così, ad avviso della S.C.,  la  pienezza ed effettività della tutela giurisdizionale presidiata dagli articoli 24, 103 e 113 Cost. Di qui il puntuale richiamo  alla    interpretazione del Decreto Legge n. 220/2003, conv. con modificazioni nella L. n. 280/ 2003, già prospettata  dalla Sez.Unite secondo cui l'impianto normativo:   a) all'art. 1 assicura l'autonomia dell'ordinamento sportivo e garantisce la tutela giurisdizionale solo a quelle posizioni giuridiche soggettive che, pur legate con l'ordinamento sportivo, sono rilevanti per l'ordinamento statale; b)  all'art. 2 devolve all'ordinamento sportivo l'osservanza delle disposizioni regolamentari organizzative e statutarie dell'ordinamento sportivo nazionale e delle sue articolazioni, le condotte di rilievo disciplinare e l'irrogazione e applicazione delle relative sanzioni sportive, trattandosi del c.d. "vincolo sportivo", in base al quale le societa', le associazioni, gli affiliati e i tesserati hanno l'onere di adire, secondo statuti e regolamenti del C.O.N.I. e delle Federazioni, gli organismi di giustizia dell'ordinamento settoriale; c) all'art. 3 stabilisce che, una volta esauriti i ricorsi interni alla giustizia sportiva - e fatta salva la giurisdizione ordinaria sui soli rapporti patrimoniali tra società, associazioni e atleti - ogni altra controversia su atti del C.O.N.I. o delle Federazioni sportive è disciplinata dal codice del processo amministrativo. Alla stregua delle argomentazioni sopra riportate le Sez. Unite enucleano  il principio secondo cui  all’ordinamento sportivo è riservata la disciplina delle questioni concernenti l’osservanza e l’applicazione delle norme regolamentari organizzative e statutarie finalizzate a garantire il corretto svolgimento delle attività sportive, e cioè di quelle che sono comunemente note come "regole tecniche", oltre che "i comportamenti rilevanti sul piano disciplinare e l’irrogazione ed applicazione delle relative sanzioni disciplinari" (Corte Cost. n. 49 del 2011):  restano soggette alla giurisdizione statale, e segnatamente alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo ai sensi dell'articolo 133, comma 1, lettera z) cod. proc. amm., le controversie aventi a oggetto l'impugnativa di atti del Comitato olimpico nazionale italiano o delle Federazioni sportive nazionali che si configurano, come nella specie, alla stregua di decisioni relative alla regolare assunzione di cariche associative, codeste essendo munite di rilevanza per l'ordinamento dello Stato.  Ne consegue che  la controversia in cui si discute della decisione relativa alla regolarità dell'elezione a una carica sociale  non è tale, perché una simile controversia non è relegabile nell'alveo di quelle nelle quali viene in rilievo l'applicazione di norme semplicemente finalizzate a garantire il corretto svolgimento delle attività sportive: essa attiene sì all'organizzazione della federazione, ma, per quanto così connotata, non è né  può essere confinata in un'area di irrilevanza per l'ordinamento dello Stato, giacchè  sono pur sempre tutelati dall'ordinamento statale i diritti in cui si esplica la personalità  dell'individuo, anche nell'ambito delle formazioni sociali, siano esse di diritto privato o di diritto pubblico. Ben vero, secondo l’interpretazione giurisprudenziale , proprio  in tale prospettiva si muove il  D.L. n. 220/ 2003,  laddove stabilisce   che i rapporti tra l’ordinamento sportivo e quello statale sono regolati in base al principio di autonomia <<salvi i casi di rilevanza per l'ordinamento giuridico della Repubblica di situazioni giuridiche soggettive connesse con l'ordinamento sportivo>> (art.1, comma 1). E’ il caso di segnalare come, da ultimo, il Consiglio di Stato con sentenza n.8743 del 13.10.2022  abbia evidenziato che la decisione relativa all’assegnazione di una “vittoria a tavolino” rientri nella competenza esclusiva degli organi dell'ordinamento sportivo, precisando che  “Ciò che rileva  al fine di escludere la giurisdizione del giudice dello Stato, è il fatto incontestabile che la controversia abbia ad oggetto il riconoscimento della vittoria a tavolino a seguito dell’annunciato ritiro della controinteressata ove non fosse stata spostata la data delle finali. Si tratta, quindi, di questione puramente tecnica, che riguarda l’applicazione delle regole sullo svolgimento degli incontri e che si consuma tutta all’interno dell’ordinamento sportivo, indipendentemente dalle conseguenze che può avere sullo svolgimento del Campionato”.

 

 

*Dottore di Ricerca Diritto del Lavoro Università degli Studi di Napoli



novembre 2022

SOCCOMBENZA PARZIALE E SPESE DI LITE

recente pronuncia delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione

breve nota a sentenza a cura di Enrico Romano

 A seguito di ricorso R.G. n. 27264/2018 ad istanza di M.R.  (avverso la sentenza   della Corte di  Appello di Napoli n. 3318 del 02.07.2018)  la III  Sezione civile della  Corte di Cassazione ,  con ordinanza del 14 ottobre 2021, ha rimesso gli atti al Primo Presidente, per l’assegnazione alle Sezioni Unite, dando atto della proposizione di  questione, ritenuta di particolare importanza, in ordine alla quale si registrano orientamenti contrastanti,  ovvero  <<se sia corretta e costituzionalmente orientata l'interpretazione dell'art. 92 cod. proc. civ. secondo cui, nel caso di rilevante divario tra petitum e decisum, l'attore parzialmente vittorioso possa essere condannato alla rifusione di un'aliquota delle spese di lite in favore della controparte>>.  Evidenzia  , così,  la sentenza in commento che la 3a  Sezione civile, nel sollecitare la rimessione della questione all’esame delle Sezioni Unite, ha svolto sei  considerazioni che, a suo parere,   contrasterebbero  con l’orientamento che ritiene ammissibile la condanna della parte parzialmente vittoriosa alla rifusione delle spese di lite, e precisamente  : << a) sul piano dell'interpretazione letterale, il rapporto tra la condanna alle spese e la compensazione delle stesse si configura come un rapporto di regola ad eccezione, risultando la prima prevista in via generale dall'art. 91 cod. proc. civ. e la seconda consentita dall'art. 92 a determinate condizioni (violazione del dovere di correttezza, soccombenza reciproca o sussistenza di gravi motivi), in assenza delle quali torna ad operare la regola «victus victori», b) sul piano dell'interpretazione logica, l'affermazione secondo cui la proposizione di una domanda di condanna eccedente la reale entità del credito costringe il convenuto a sostenere maggiori oneri di difesa trascura il fatto che il diritto al rimborso delle spese non preesiste alla sentenza, ma sorge con essa, e prescinde dalla considerazione delle spese che la parte soccombente ha dovuto sostenere per contrastare l'iniziativa giudiziaria avversa, c) nel caso in cui la domanda risulti eccessiva, il soccombente è tutelato dal principio, stabilito dall'art. 5, comma primo, del d.m. 10 marzo 2014, n. 55, per cui le spese dovute alla parte vittoriosa vanno liquidate in base al decisum, d) sotto il profilo pratico, distinguere i maggiori oneri che il convenuto ha dovuto affrontare a causa dell'esosità della pretesa dell'attore da quelli che avrebbe dovuto comunque sostenere per la propria difesa potrebbe risultare velleitario, oltre che incompatibile con le esigenze di semplificazione ricollegabili al principio di ragionevole durata di cui all'art. 111, secondo comma, Cost., e) qualificare la vittoria parziale come soccombenza parziale significa equiparare la posizione dell'attore a quella del convenuto, trascurando il fatto che solo il primo è costretto a ricorrere al giudice per far valere il proprio diritto, ed inducendolo pertanto indirettamente ad astenersi dal suo esercizio, in tutti i casi in cui il costo della lite possa superare il valore della stessa, in contrasto con l'art. 24 Cost., f) l'orientamento in questione allarga eccessivamente l'area della discrezionalità del giudicante, attribuendogli poteri valutativi assai ampi ed insindacabili in sede di legittimità>>.                                          Con la sentenza n. 32061 del 31 ottobre scorso le Sezioni Unite hanno, pertanto, ripercorso   gli orientamenti  contrapposti.   Nella ricostruzione ricordata  dalle Sezioni Unite , infatti,   un primo e risalente orientamento << fornisce al predetto quesito una risposta negativa, affermando che in caso di accoglimento parziale della domanda il giudice può, ai sensi dell'art. 92 cod. proc. civ., ed in applicazione del cosiddetto principio di causalità, escludere la ripetizione di spese sostenute dalla parte vittoriosa ove le ritenga eccessive o superflue, ma non anche condannare la stessa parte vittoriosa ad un rimborso di spese sostenute dalla controparte, indipendentemente dalla soccombenza, poiché tale condanna è consentita dall'ordinamento solo per l'ipotesi eccezionale (la cui ricorrenza richiede una specifica ed espressa motivazione) in cui tali spese siano state causate all'altra parte attraverso la trasgressione del dovere di cui all'art. 88 cod. proc. civ.; ne consegue che, qualora la parte attrice sia rimasta vittoriosa in misura più o meno significativamente inferiore rispetto all'entità del bene che attraverso il processo ed in forza della pronuncia giurisdizionale si proponeva di conseguire, e la parte convenuta abbia adottato posizioni difensive concilianti o di parziale contestazione degli avversari assunti, possono ravvisarsi (secondo il discrezionale apprezzamento, ad opera del giudice, del loro vario atteggiarsi) i giusti motivi atti a legittimare la compensazione, pro quota o per intero, delle spese tra le parti e non anche un'ipotesi di soccombenza reciproca (cfr. ex plurimis, Cass., Sez. III, 19/10/2015, n. 21083; 21/03/1994, n. 2653; Cass., Sez. I, 23/01/2012, n. 901; Cass., Sez. lav., 9/04/1986, n. 2493).                 La S.C. ricorda , così, che secondo il citato orientamento  << la nozione di soccombenza, che ai sensi dello art. 91 cod. proc. civ. costituisce il presupposto della condanna alle spese, si identifica esclusivamente con il rigetto integrale della domanda, e non risulta pertanto integrata ove con la sentenza venga liquidata una somma sensibilmente inferiore a quella richiesta dalla parte: la mera resistenza del convenuto alla pretesa dell'attore, in quanto eccessiva o solo parzialmente fondata, anche quando trova consenso nella statuizione del giudice, che accolga soltanto in parte la domanda, non si trasforma infatti in domanda riconvenzionale, e non può quindi dar luogo alla soccombenza reciproca, la quale presuppone invece una pluralità di pretese contrapposte, totalmente o parzialmente accolte o rigettate dal giudice, 

con la conseguente attribuzione di vantaggi e svantaggi rispettivamente a favore ed a carico di entrambe le parti. Il criterio della soccombenza, ai fini dell'attribuzione dell'onere delle spese processuali, viene poi ritenuto non frazionabile in relazione all'esito delle varie fasi del giudizio, dovendo essere riferito in modo unitario e globale all'esito finale della lite, senza che rilevi che in qualche grado o fase del giudizio la parte poi definitivamente soccombente abbia conseguito un esito ad essa favorevole (cfr. Cass., Sez. VI, 23/03/2016, n. 5820; Cass., Sez. VI, 18/03/ 2014, n. 6259; Cass., Sez. III, 28/09/2015, n. 19122; 12/05/2015, n. 9587) >>.  Al ricordato orientamento se ne  contrappone , per l’appunto, altro più recente ispirato al “principio di causalità” secondo cui, come evidenziano  le Sezioni Unite << la soccombenza reciproca, che ai sensi dell'art. 92, secondo comma, cod. proc. civ. giustifica la compensazione totale o parziale delle spese processuali, può essere ravvisata non solo in presenza di una pluralità di domande contrapposte formulate nel medesimo processo tra le stesse parti, ma anche nell'ipotesi di accoglimento parziale dell'unica domanda proposta, tanto nel caso in cui la stessa sia articolata in più capi, alcuni dei quali soltanto siano stati accolti, quanto nel caso in cui sia stata articolata in un unico capo e la parzialità abbia riguardato la misura meramente quantitativa del suo accoglimento: pertanto, laddove sia disposta la compensazione parziale delle spese di lite, è la parte che abbia dato causa in misura prevalente agli oneri processuali, e alla quale quindi questi ultimi siano in maggior misura imputabili, quella che può essere condannata al pagamento di tale corrispondente maggior misura (cfr. Cass., Sez. III, 15/01/2020, n. 516; 22/02/2016, n. 3438; Cass., Sez. I, 24/04/ 2018, n. 10113; Cass., Sez. VI, 23/09/2013, n. 21089)>>.

Le Sezioni Unite ricordano, inoltre,  un orientamento intermedio, che prendendo in considerazione  anche le  modifiche che la   L. n.69/2009 ha apportato  all’art. 91 c.p.c.  ,  ritiene <<configurabile la soccombenza reciproca anche a fronte dell’accoglimento parziale di una pluralità di domande o dell'unica domanda proposta, ma hanno escluso, in tali ipotesi, la possibilità di porre le spese processuali in tutto o in parte a carico della parte risultata vittoriosa, affermando che tale condanna è consentita dall'ordinamento soltanto per l'ipotesi eccezionale di accoglimento della domanda in misura non superiore all'eventuale proposta conciliativa (cfr. Cass., Sez. III, 24/10/2018, n. 26918; 23/01/2018, n. 1572) >>.  Prima di enunciare il principio di diritto,  le Sezioni Unite non tralasciano un riferimento all’orientamento di autorevole dottrina tendente ad <<individuare il fondamento della condanna alle spese in un principio più generale, quello di causalità, in virtù del quale i costi del processo devono essere fatti gravare, in definitiva, sulla parte che avrebbe potuto evitare la lite e che invece vi ha dato causa: tale principio, del quale il criterio della soccombenza costituirebbe soltanto un'applicazione o un indice rivelatore, implica una valutazione della condotta tenuta dalla parte sia prima che nello ambito del processo, al fine di verificare se la stessa vi abbia dato origine, lasciando insoddisfatta un pretesa della quale sia stata poi accertata la fondatezza o azionando una pretesa della quale sia stata riconosciuta l’infondatezza, o ne abbia prolungato la durata, resistendovi in forme o con argomenti non conformi al diritto (cfr. nella giurisprudenza di legittimità, Cass., Sez. III, 30/03/2010, n. 7625, riguardante un genitore, convenuto in riconvenzionale nella qualità di legale rappresentante del figlio minore, che, a seguito del rigetto della domanda riconvenzionale in primo grado, si era costituito in appello unitamente al figlio, divenuto maggiorenne nelle more del giudizio di primo grado, resistendo all'impugnazione della controparte; 15/10/2004, n. 20335, relativa al caso in cui un attore aveva dedotto, in via alternativa o solidale, come fatti costitutivi di un medesimo evento dannoso ed in funzione di un'unica domanda di risarcimento dei danni, comportamenti illeciti di soggetti diversi; Cass., Sez. II, 26/01/2006, n. 1513, avente ad oggetto una controversia relativa all'estinzione del processo) >>. Dopo l’excursus che si è riportato in sintesi le Sezioni Unite  enunciano quindi  il seguente  principio di diritto  << in tema di spese processuali, l’accoglimento in misura ridotta, anche sensibile, di una domanda articolata in un unico capo non dà luogo a reciproca soccombenza, configurabile esclusivamente in presenza di una pluralità di domande contrapposte formulate nel medesimo processo tra le stesse parti o in caso di parziale accoglimento di un'unica domanda articolata in più capi, e non consente quindi la condanna della parte vittoriosa al pagamento delle spese processuali in favore della parte soccombente, ma può giustificarne soltanto la compensazione totale o parziale, in presenza degli altri presupposti previsti dall'art. 92, secondo comma, cod. proc. civ.  >>. 



maggio 2022

ORIENTAMENTI GIURISPRUDENZIALI

IN TEMA DI STRAINING 

Rassegna a cura di Enrico Romano

Com’è noto lo straining  è costituito da condotte datoriali che ledono i diritti fondamentali del dipendente e consistono nell'adozione di condizioni lavorative "stressogene" che per caratteristiche, gravità, frustrazione personale o professionale,   possono determinare la sussistenza di un più tenute danno a fronte di condotte datoriali non sorrette da un intento persecutorio idoneo ad unificare gli episodi o comunque a configurare una condotta di "mobbing" (in tal senso: Trib.  Roma  Sez.Lav. n.156 del  10/01/2019).

     A differenza del mobbing, lo straining si caratterizza per la particolare aggressività del comportamento attuato dal datore di lavoro, manifestata attraverso la repentinità o la natura eclatante dell’azione o insita nelle specifiche circostanze del demansionamento, ovvero nel concomitante verificarsi di altri atti vòlti ad isolare, anche dal punto di vista umano, il lavoratore.   Anche lo straining - come il mobbing - provoca al dipendente ricadute sulla   autostima e sulla  salute, nonché turbative professionali e di serenità familiare che  incidono sulla sua qualità di vita.  In presenza di un persistente vuoto normativo, entrambe le fattispecie sono tutelabili in virtù di quanto disposto dall’art. 2087 c.c., che, quale norma aperta, rappresenta strumento sanzionatorio atto a punire tutte quelle condotte del datore di lavoro capaci di ledere la personalità e la dignità del lavoratore (Corte Appello Ancona Sez. Lav.  n.248 del 19.10.2021).   La Suprema Corte  è orientata nel ritenere che, nell’ ipotesi in cui il lavoratore chieda il risarcimento del danno patito alla propria integrità psico-fisica in conseguenza di una pluralità di comportamenti  datoriali  e dei colleghi di lavoro di natura asseritamente vessatoria,  il giudice del merito, pur nella accertata insussistenza di un intento persecutorio idoneo ad unificare tutti gli episodi addotti dall'interessato e quindi della configurabilità di una condotta di "mobbing", è tenuto a valutare se alcuni dei comportamenti denunciati - esaminati singolarmente, ma sempre in sequenza causale - pur non essendo accomunati dal medesimo fine persecutorio, possano essere considerati vessatori e mortificanti per il lavoratore e, come tali, siano ascrivibili a responsabilità del datore di lavoro, che possa essere chiamato a risponderne (Per tutte : Cass. Sez.Lav., n. 21344 del 18/09/2013 ).  

     Sull’argomento, riportiamo, di seguito (per estratto, talvolta più ampio,  che non rappresenta, quindi, una massima) gli  snodi più significativi  di alcune  pronunce di merito e legittimità, aggiornate al maggio del corrente anno 2022.

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Tribunale Milano Sez. Lav.,  n.1047 del 23.04.2019

Una condotta vessatoria di tipo episodico integra la fattispecie di straining, fonte di responsabilità datoriale ex art. 2087 c.c., allorché il lavoratore subisca una modificazione negativa e permanente della propria situazione lavorativa, anche in caso di mancata prova di un preciso intento persecutorio.

Tribunale   Venezia , Sez.Lav. n. 480 del  31.07.2017 

La condotta di straining consiste in una situazione lavorativa conflittuale di stress forzato provocato appositamente ai danni della vittima con condotte di ostilità o discriminazione, le quali però a differenza del mobbing, sono limitate nel numero e/o distanziate nel tempo. Costituiscono parametri di riconoscimento dello straining: l’ambiente lavorativo, la frequenza e la durata dell’azione ostile, l’appartenenza delle azioni subite ad una delle categorie tipizzate dalla scienza, la posizione di costante inferiorità percepita come permanente. 

Tribunale  Chieti Sez. Lav. , n. 138 del 30.05.2017

Lo straining indica una situazione di stress forzato subita sul posto di lavoro, in cui la vittima (il lavoratore) è destinatario di almeno un’azione ostile e stressante, i cui effetti negativi si protraggono nel tempo. A differenza del mobbing che richiede la continuità delle azioni vessatorie, perché possa configurarsi lo straining è sufficiente anche una sola azione, purché i suoi effetti siano duraturi (come avviene nei casi di demansionamento e/o di trasferimento). Pertanto, si tratta di un tipo di stress superiore rispetto a quello connaturato alla natura stessa del lavoro e alle normali interazioni organizzative, che può essere qualificato come una condizione psicologica a metà strada tra il mobbing ed il semplice stress occupazionale. Tale condotta del datore di lavoro, laddove rilevata, integrando comportanti che si pongono in contrasto con l’art. 2087 c.c. e con la normativa in materia di tutela della salute negli ambienti di lavoro, può generare un danno ingiusto che va adeguatamente risarcito.  

Tribunale Vibo Valentia, Sez. Lav.  n. 346 del 26.05.2021

 (…) Occorre preliminarmente riqualificare il fenomeno presupposto dalla domanda in delibazione alla stregua di straining anziché di mobbing..Come chiarito - fra le altre - da Cass., Sez. Lav., ord. n. 11864/2018, «Lo straining altro non è se non una forma attenuata di mobbing nella quale non si riscontra il carattere della continuità delle azioni vessatorie, azioni che, peraltro, ove si rivelino produttive di danno all'integrità psico-fisica del lavoratore, giustificano la pretesa risarcitoria fondata sull'art. 2087 cod. civ., norma di cui da tempo è stata fornita un'interpretazione estensiva costituzionalmente orientata al rispetto di beni essenziali e primari quali sono il diritto alla salute, la dignità umana e i diritti inviolabili della persona, tutelati dagli artt. 32, 41 e 2 Cost. (v. Cass. 4 novembre 2016, n. 3291 e la recente Cass. 19 febbraio 2018, n. 3977)», e tale scenario - pedissequamente a Cass., Sez. Lav., ord. n. 2676/2021 - «è ravvisabile allorquando il datore di lavoro adotti iniziative che possano ledere i diritti fondamentali del dipendente mediante condizioni lavorative "stressogene", e non quando la situazione di amarezza, determinata ed inasprita dal cambio della posizione lavorativa, sia determinata dai processi di riorganizzazione e ristrutturazione che abbiano coinvolto l'intera azienda».

Tribunale Napoli Sez.Lav. , n. 449 del 04.02.2022

Nel giudizio sulla sussistenza o meno dell'intento persecutorio rileva anche la natura pubblica del datore di lavoro, che, nel rispetto del principio costituzionale di cui all'art. 97 cost., è tenuto ad intervenire per assicurare efficienza, legittimità e trasparenza dell'azione amministrativa. Il quadro probatorio, così come ricostruito all’esito dell’istruttoria svolta e dell’esame della documentazione agli atti, conduce lecitamente a fondare il convincimento giudiziale in ordine alla sussistenza, non tanto di un vero e proprio fenomeno di mobbing, quanto, piuttosto, di cd. “straining”. Trattasi di una forma attenuata di mobbing nella quale non si riscontra il carattere della continuità delle azioni vessatorie; tali azioni, però, ove si rivelino produttive di danno all'integrità psico-fisica del lavoratore, giustificano la pretesa risarcitoria fondata sull'art. 2087 cod. civ., norma di cui, è noto che da tempo è stata fornita un'interpretazione estensiva costituzionalmente orientata al rispetto di beni essenziali e primari quali sono il diritto alla salute, la dignità umana e i diritti inviolabili della persona, tutelati dagli artt. 32, 41 e 2 Cost. (v. Cass. 4 novembre 2016, n. 3291 e la recente Cass. 19 febbraio 2018, n. 3977). Per altro e concorrente aspetto non è, peraltro condizione sufficiente l'accertata esistenza di una dequalificazione o di plurime condotte datoriali illegittime, essendo, in ogni caso, necessario che il lavoratore alleghi e provi, con ulteriori e concreti elementi, che i comportamenti datoriali siano il frutto di un disegno persecutorio unificante, preordinato alla prevaricazione (v. Cass. n. 10992 del 09/06/2020). E’ appena il caso di evidenziare che la qualificazione della fattispecie in termini di straining, mentre in ricorso si è fatto riferimento al mobbing, non integra la violazione dell’112 c.p.c., in quanto si tratta soltanto di adoperare differenti qualificazioni di tipo medico-legale, per identificare comportamenti ostili, in ipotesi atti ad incidere sul diritto alla salute, costituzionalmente tutelato.

Tribunale Teramo Sez. Lav.   n. 89 del 22.02.2022

Come ha avuto modo di evidenziare la giurisprudenza di legittimità, nell'ipotesi in cui il lavoratore chieda il risarcimento del danno patito alla propria integrità psico-fisica in conseguenza di una pluralità di comportamenti del datore di lavoro e dei colleghi di lavoro di natura asseritamente persecutoria, il giudice del merito è tenuto a valutare se i comportamenti denunciati possano essere considerati vessatori e mortificanti per il lavoratore e se siano causalmente ascrivibili a responsabilità del datore che possa esserne chiamato a risponderne nei limiti dei danni a lui specificamente imputabili (Cass., n. 4222 del 03/03/2016). Valga, peraltro, aggiungere che nella ipotesi in cui il lavoratore chieda il risarcimento del danno patito alla propria integrità psicofisica in conseguenza di una pluralità di comportamenti del datore di lavoro e dei colleghi di lavoro di natura asseritamente vessatoria, il giudice del merito, pur nella accertata insussistenza di un intento persecutorio idoneo ad unificare tutti gli episodi addotti dall'interessato e quindi della configurabilità di una condotta di "mobbing", è tenuto a valutare se alcuni dei comportamenti denunciati esaminati singolarmente, ma sempre in sequenza causale - pur non essendo accomunati dal medesimo fine persecutorio, possano essere considerati vessatori e mortificanti per il lavoratore e, come tali, siano ascrivibili a responsabilità del datore di lavoro, che possa essere chiamato a risponderne, nei limiti dei danni a lui imputabili (Cassazione civile, sez. lav., 20.06.2018, n. 16256).

Corte Appello  Brescia Sez.Lav.  n.245 del 22.02.2022

Per principio generale il datore di lavoro deve garantire ai dipendenti un ambiente di lavoro sicuro, anche sotto il profilo della serenità delle condizioni di lavoro. A tal fine, egli deve evitare situazioni ‘stressogene’ per i lavoratori, che diano origine ad una condizione che, per gravità, frustrazione personale o professionale, possa ricondurre ad una qualche forma di danno. In tale ottica si pone lo ‘straining’, che è una forma attenuata di mobbing, nella quale non si riscontra il carattere della continuità delle azioni vessatorie; tali azioni, però, ove si rivelino produttive di danno all’integrità psico-fisica del lavoratore, giustificano la pretesa risarcitoria fondata sull’art. 2087 c.c..

 

Corte Appello  Milano  Sez. Lav. n. 882 del  12.06.2017 

Con riferimento agli atti vessatori posti nei confronti del lavoratore, quando le diverse condotte moleste subite dal lavoratore non si ricompongano in un unicum e non risultino complessivamente e cumulativamente idonee a destabilizzare l'equilibrio psico-fisico del lavoratore o a mortificare la sua dignità, ciò non esclude che tali condotte o alcune di esse possano risultare, se esaminate separatamente e distintamente, lesive dei fondamentali diritti del lavoratore, costituzionalmente tutelati.

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Cass.Sez.Lav. n.3291 del 19.02.2016

Lo  straining  si definisce come una situazione lavorativa conflittuale di stress forzato, in cui la vittima subisce azioni ostili limitate nel numero e/o distanziate nel tempo (quindi non rientranti nei parametri del mobbing) ma tale da provocarle una modificazione in negativo, costante e permanente, della condizione lavorativa;  a) il suddetto "stress forzato" può essere provocato appositamente ai danni della vittima con condotte caratterizzate da intenzionalità o discriminazione — come è avvenuto nella specie per i due episodi che hanno visto il P. come protagonista — e può anche derivare dalla costrizione della vittima a lavorare in un ambiente di lavoro disagevole, per incuria e disinteresse nei confronti del benessere lavorativo; b) è sufficiente, come si è detto, anche un'unica azione ostile purché essa provochi conseguenze durature e costanti a livello lavorativo, tali per cui la vittima percepisca di essere in una continua posizione di inferiorità rispetto ai suoi aggressori; nella specie si riscontrano tutti i parametri di riconoscimento dello straining: ambiente lavorativo; frequenza e durata dell'azione ostile (nella specie almeno semestrale), le azioni subite appartengono ad una delle categorie tipizzate dalla scienza (che sono: attacchi ai contatti umani,  isolamento sistematico, cambiamenti delle mansioni, attacchi contro la reputazione della persona, violenza o minacce di violenza), posizione di costante inferiorità percepita come permanente;   da quanto si è detto risulta evidente che non può ipotizzarsi alcuna violazione dell'art. 112 cod. proc. eiv. per il fatto che, mentre la ricorrente ha fatto riferimento al mobbing, si ritenga di qualificare la fattispecie come straining, in quanto si tratta soltanto di adoperare differenti qualificazioni di tipo medico-legale, per identificare comportamenti puntualmente allegati e provati nel giudizio di primo grado; quanto alla quantificazione del danno conseguente alla suddetta condotta — e, in teoria, da aggiungere al danno biologico — si ritiene che la liquidazione di tale danno come effettuata dal giudice di primo grado rispecchi esattamente la misura della sofferenza patita e il danno psichico permanente subito. (…) Il giudice, nell'esercizio della sua potestas decidendi, resta libero non solo d'individuare l'esatta natura dell'azione e di porre a base della pronuncia adottata considerazioni di diritto diverse da quelle all'uopo prospettate, ma di rilevare, altresì, indipendentemente dall'iniziativa della controparte, la mancanza degli elementi che caratterizzano l'efficacia costitutiva od estintiva di una data pretesa della parte, in quanto ciò attiene all'obbligo inerente all'esatta applicazione della legge (vedi, per tutte: Cass. 1 ottobre 1994, n.7977; Cass. 23 febbraio 1998, n. 1940; Cass. 16 maggio 1998, n. 4923; Cass. 5 ottobre 1998, n. 9887; Cass. 28 agosto 2003, n. 12265; Cass. 31 gennaio 2006, n. 2146; Cass. 22 marzo 2007, n. 6945; Cass. 26 ottobre 2009, n. 22595).  Inoltre, nell'indagine diretta all'individuazione del contenuto e della portata della domanda sottoposta alla sua cognizione, il giudice del merito non è tenuto ad uniformarsi al tenore meramente letterale degli atti nei quali la stessa sia contenuta, in quanto deve anzi avere riguardo al contenuto sostanziale della pretesa fatta valere, quale desumibile dalla natura delle vicende dedotte e rappresentate dalla parte istante, senza limitare la sua pronuncia in relazione alla prospettazione letterale della pretesa, occorrendo accertare il suo effettivo contenuto sostanziale, tenendo conto anche delle domande che risultino implicitamente proposte o necessariamente presupposte, in modo da ricostruire il contenuto e l'ampiezza della pretesa medesima secondo criteri logici che permettano di rilevare l'effettiva volontà della parte in relazione alle :finalità concretamente perseguite dalla stessa (Cass. n. 830 del 2006; 2 dicembre 2004, n. 22665; Cass. 10 febbraio 2010, n. 3012; Cass. 26 settembre 2011, n. 19630).

 Incorre, infatti, nel vizio di omesso esame il giudice che limiti la sua pronuncia alla sola prospettazione letterale della pretesa, trascurando la ricerca dell'effettivo contenuto sostanziale della stessa (Cass. 14 novembre 2011, n. 23794).  Ciò ancor di più nel rito del lavoro nel quale la necessità di assicurare un'effettiva tutela del diritto di difesa di cui all'art. 24 Cost., nell'ambito del rispetto dei principi del giusto processo di cui all'art. 111, secondo comma, Cost. e in coerenza con l'art. 6 CEDU, comporta l'attribuzione di una maggiore rilevanza allo scopo del processo - costituito dalla tendente finalizzazione ad una decisione di merito - che impone di discostarsi da interpretazioni suscettibili di ledere il diritto di difesa della parte o che, comunque, risultino ispirate ad un eccessivo formalismo, tale da ostacolare il raggiungimento del suddetto scopo (vedi, per tutte: Cass. 1 agosto 2013, n. 18410). Lo straining, che è pur sempre un comportamento che può produrre una situazione stressante, la quale a sua volta può anche causare gravi disturbi psico-somatici o anche psico-fisici o pscichici. Pertanto, pur mancando il requisito della continuità nel tempo della condotta, essa può essere sanzionata in sede civile sempre in applicazione dell'art. 2087 cod. civ. ma può anche dare luogo a fattispecie di reato, se ne ricorrono i presupposti (vedi, per tutte: Cass., VI Sezione penale,28 marzo —3 luglio 2013, n. 28603).

Cass.Sez.Lav. n.32257 del 10.12.2019

(…) La nozione di mobbing,  come quella di straining, è una nozione di tipo medico-legale, che non ha autonoma rilevanza ai fini giuridici e serve soltanto per identificare comportamenti che si pongono in contrasto con l'art.2087 cod. civ. e con la normativa in materia di tutela della salute negli ambienti di lavoro (Cass. 19 febbraio 2016, n. 3291) In effetti, come afferma il ricorrente, è il datore di lavoro l'unico responsabile della violazione dell'art. 2087 cod. civ. - cui va ascritto anche il c.d. danno da mobbing lavorativo - mentre l'INAIL può, eventualmente, agire con la surrogazione ex art. 1916 cod. civ. contro i terzi responsabili, estranei al rapporto assicurativo, per il rimborso delle indennità corrisposte al lavoratore o ai suoi superstiti azionando il diritto al risarcimento del danno spettante all'assicurato, oppure può intentare l'azione di regresso ex artt. 10 e 11 del T.U. n. 1124 del 1965 contro il datore di lavoro che debba rispondere penalmente delle lesioni o che sia civilmente responsabile dell'operato di un soggetto del quale sia accertata con sentenza la responsabilità, facendo valere in giudizio un proprio diritto che origina dal rapporto assicurativo (Cass. 26 aprile 2019, n. 11324).

Cass.Sez.Lav. n.24883 del 04.10.2019

(..)Vero è che, ai sensi dell'art. 2087 c.c., norma di chiusura del sistema antinfortunistico e suscettibile di interpretazione estensiva in ragione sia del rilievo costituzionale del diritto alla salute sia dei principi di correttezza e buona fede cui deve ispirarsi lo svolgimento del rapporto di lavoro, il datore è tenuto ad astenersi da iniziative che possano ledere i diritti fondamentali del dipendente mediante  l'adozione di condizioni lavorative "stressogene" (cd. "straining"), e a tal fine il giudice del merito, pur se accerti l'insussistenza di un intento persecutorio idoneo ad unificare gli episodi in modo da potersi configurare una condotta di "mobbing", è tenuto a valutare se, dagli elementi dedotti - per caratteristiche, gravità, frustrazione personale o professionale, altre circostanze del caso concreto - possa presuntivamente risalirsi al fatto ignoto dell'esistenza di questo più tenue danno (cfr. Cass.19.2.2016); tuttavia, nella specie è stata ritenuta carente proprio una compiuta deduzione di circostanze rilevanti anche ai più limitati fini della integrazione della condotta di straining, dovendo ex art. 2087 c.c., ritenersi che incomba al lavoratore che lamenti di avere subito, a causa dell'attività lavorativa svolta, un danno alla salute, l'onere di provare, oltre all'esistenza di tale danno, la nocività dell'ambiente di lavoro, nonché il nesso tra l'una e l'altra, e solo se il lavoratore abbia fornito tale prova sussiste per il datore di lavoro l'onere di provare di avere adottato tutte le cautele necessarie ad impedire il verificarsi del danno (cfr., da ultimo, Cass. 19.10.2018 n. 26495).

Cass.Sez.Lav. n.2676 del 04.02.2021

(…) In punto di diritto  le conclusioni della Corte territoriale non meritano  le censure mosse perché il cd. "straining" è ravvisabile allorquando il datore adotti iniziative che possano ledere i diritti fondamentali del dipendente mediante condizioni lavorative "stressogene" (Cass n. 3291 del 2016) e non quando, invece, come nel caso in esame, la situazione di amarezza, determinata ed inasprita dal cambio della posizione lavorativa, sia determinata dai processi di riorganizzazione e ristrutturazione che avevano coinvolto l'Istituto bancario nella sua interezza, come rilevato nella fattispecie.

Cass.Sez.Lav. n.16580 del 23.05.2022

(…) La determinazione intenzionale di un danno alla persona del lavoratore da parte del datore di lavoro o di chi per lui è in re ipsa ragione di violazione dell'art. 2087 c.c.;  è configurabile lo straining quando vi siano comportamenti stressogeni scientemente attuati nei confronti di un dipendente, anche se manchi la pluralità delle azioni vessatorie (Cass. 10 luglio 2018, n. 18164) o esse siano limitate nel numero (Cass. 29 marzo 2018, n. 7844), ma anche nel caso in cui il datore di lavoro consenta, anche colposamente, il mantenersi di un ambiente stressogeno fonte di danno alla salute dei lavoratori (Cass. 19 febbraio 2016, n. 3291), anche qui, al di là delle denominazioni, lungo la falsariga della responsabilità dolosa o anche colposa del datore di lavoro che indebitamente tolleri l'esistenza di una condizione di lavoro lesiva della salute ancora secondo il paradigma di cui all'art. 2087 c.c.; - è comunque configurabile la responsabilità datoriale a fronte di un mero inadempimento — imputabile anche solo per colpa - che si ponga in nesso causale con un danno alla salute (ad es. applicazione di plurime sanzioni illegittime: Cass. 20 giugno 2018, n. 16256; comportamenti che in concreto determinino svilimento professionale: Cass. 20 aprile 2018, n. 9901) e ciò secondo le regole generali sugli obblighi risarcitori conseguenti a responsabilità contrattuale (artt. 1218 e 1223 c.c.); - si resta invece al di fuori della responsabilità ove i pregiudizi derivino dalla qualità intrinsecamente ed inevitabilmente usurante della ordinaria prestazione lavorativa (Cass. 29 gennaio 2013, n. 3028) o tutto si riduca a meri disagi o lesioni di interessi privi di qualsiasi consistenza e gravità, come tali non risarcibili (Cass., S.U., 22 febbraio 2010, n. 4063; Cass., S.U., 11 novembre 2008, n. 26972).

Cass.Sez.Lav. n.3977 del 19.02.2018

Non integra violazione dell'art. 112 cod. proc. civ. l'avere utilizzato «la nozione medico-legale dello straining anziché quella del mobbing» perché lo straining altro non è se non « una forma attenuata di mobbing nella quale non si riscontra il carattere della continuità delle azioni vessatorie..» azioni che, peraltro, ove si rivelino produttive di danno all'integrità psico-fisica del lavoratore, giustificano la pretesa risarcitoria fondata sull'art. 2087 cod. civ.;  al principio di diritto enunciato il Collegio intende dare continuità perché dell'art. 2087 cod. civ. questa Corte ha da tempo fornito un'interpretazione estensiva costituzionalmente orientata al rispetto di beni essenziali e primari quali sono il diritto alla salute, la dignità umana e i diritti inviolabili della persona, tutelati dagli artt. 32, 41 e 2 Cost.; l'ambito di applicazione della norma è stato, quindi, ritenuto non circoscritto al solo campo della prevenzione antinfortunistica in senso stretto, perché si è evidenziato che l'obbligo posto a carico del datore di lavoro di tutelare l'integrità psicofisica e la personalità morale del prestatore gli impone non solo di astenersi da ogni condotta che sia finalizzata a ledere detti beni, ma anche di impedire che nell'ambiente di lavoro si possano verificare situazioni idonee a mettere in pericolo la salute e la dignità della persona;  la responsabilità del datore di lavoro ex art. 2087 cod. civ. sorge, pertanto, ogniqualvolta l'evento dannoso sia eziologicamente riconducibile ad un comportamento colposo, ossia o all'inadempimento di specifici obblighi legali o contrattuali imposti o al mancato rispetto dei principi generali di correttezza e buona fede, che devono costantemente essere osservati anche nell'esercizio dei diritti; a detti principi di diritto si è correttamente attenuta la Corte territoriale che ha ritenuto sussistente la responsabilità del Ministero in quanto la D.S.  era stata oggetto di azioni ostili.

 

Cass.Sez.Lav. n.7844 del 29.03.2018 

Ai sensi dell'art. 2087 c.c., norma di chiusura del sistema antinfortunistico e suscettibile di interpretazione estensiva in ragione sia del rilievo costituzionale del diritto alla salute sia dei principi di correttezza e buona fede cui deve ispirarsi lo svolgimento del rapporto di lavoro, il datore è tenuto ad astenersi da iniziative che possano ledere i diritti fondamentali del dipendente mediante l'adozione di condizioni lavorative 'stressogene' (cd. 'straining'). A tal fine il giudice del merito, pur se accerti l'insussistenza di un intento persecutorio idoneo ad unificare gli episodi in modo da potersi configurare una condotta di 'mobbing', è tenuto a valutare se, dagli elementi dedotti - per caratteristiche, gravità, frustrazione personale o professionale, altre circostanze del caso concreto - possa presuntivamente risalirsi al fatto ignoto dell'esistenza di questo più tenue danno. (di analogo tenore: Cass.19.093.2016 n.3291)

 

Cass.Sez.Lav. n.7844 del 29.03.2018

 La motivazione addotta dalla Corte territoriale appare perfettamente in linea con la giurisprudenza di legittimità in tema di "straining", atteso che i giudici di merito hanno adeguatamente motivato sulla situazione lavorativa conflittuale di stress forzato - accresciuto dall'allontanamento del M. dalla direzione generale, nonché dall'invio di lettere di scherno diffuse in banca - in cui il lavoratore avrebbe subito azioni ostili anche se limitate nel numero e in parte distanziate nel tempo (quindi non rientranti, tout court, nei parametri del mobbing) ma tali da provocare in lui una modificazione in negativo, costante e permanente, della situazione lavorativa, atta ad incidere sul diritto alla salute, costituzionalmente tutelato, essendo il datore di lavoro tenuto ad evitare situazioni "stressogene" che diano origine ad una condizione che, per caratteristiche, gravità, frustrazione personale o professionale, altre circostanze del caso concreto possa presuntivamente ricondurre a questa forma di danno anche in caso di mancata prova di un preciso intento persecutorio (sul punto, Cass. n. 3291 del 2016); questo stress forzato, secondo la giurisprudenza di legittimità, (cfr.Cass. n. 3291 del 2016 cit.) può anche derivare, tout court, dalla costrizione della vittima a lavorare in un ambiente di lavoro ostile, per incuria e disinteresse nei confronti del suo benessere lavorativo con conseguente violazione da parte datoriale del disposto di cui all'art. 2087 cod. civ.; la Corte territoriale ha al riguardo enfatizzato le risultanze istruttorie concernenti la risonanza che ebbe in azienda l'improvvisa estromissione del M. dalla direzione generale cui si accompagnò un diffuso atteggiamento ostile e di scherno, realizzatosi anche mediante diffusione di lettere nell'agenzia, in assenza di qualsivoglia iniziativa datoriale volta a tutelare il dipendente;   quindi, per quanto concerne il danno non patrimoniale, inteso come lesione del diritto al normale svolgimento della vita lavorativa ed alla libera e piena esplicazione della propria personalità sul luogo di lavoro - anche nel significato "areddituale" della professionalità - quali diritti costituzionalmente garantiti, nonché tutelati dalla Convenzione europea dei diritti dell'uomo e dalla Carta dei diritti fondamentali dell'Unione Europea, la prova del cui pregiudizio può essere fornita anche con presunzioni (V. SU n. 2611 del 2017), le censure formulate dalla parte ricorrente attengono a valutazioni di merito non censurabili in sede di legittimità.(…) Con riguardo al danno alla professionalità da perdita di chances, il riferimento all'estromissione del M. da un settore strategico dell'azienda, nel quale stava progressivamente incrementando le proprie conoscenze tecniche e gestionali, e, quindi, l'impoverimento del proprio bagaglio professionale, qualificato dalla Corte in termini di portata patrimoniale della professionalità, che può essere dimostrata anche in via presuntiva ed in termini di calcolo delle probabilità (cfr., sul punto, fra le tante, Cass., n. 21544 del 2008) non consente, tuttavia,  una ingerenza valutativa del giudice di legittimità.

Cass. Sez.Lav. n. 18164 del 10.07.2018

 

Posto che lo straining è una forma attenuata di mobbing, mancante del carattere di continuità delle condotte vessatorie, non è preclusa la possibilità di ottenere il risarcimento del danno prodotto, qualora la pretesa risarcitoria sia stata fondata sul mobbing, anziché, come avrebbe dovuto, sullo straining (…)Non incorre in violazione dell' articolo 112 del cpc  il giudice che qualifichi la fattispecie in termini di straining a fronte di una deduzione di mobbing, trattandosi semplicemente di differenti qualificazioni di tipo medico-legale, utilizzate entrambe per identificare comportamenti ostili, in ipotesi atti a incidere sul diritto alla salute, costituzionalmente tutelato e rappresentato, lo straining, un semplice minus del mobbing. Nell'uno come nell'altro caso, infatti, viene in considerazione la violazione del precetto di cui all'articolo 2087 del Cc, norma di chiusura in materia di sicurezza sul lavoro, dalla quale deriva l'obbligo di evitare situazioni "stressogene", che diano origine a una situazione la quale, per caratteristiche, gravità, frustrazione personale o professionale, altre circostanze del caso concreto possa presuntivamente creare danni alla salute o alla dignità del lavoratore.(…) Questa Corte ha già affermato, con indirizzo cui il Collegio intende dare continuità, che lo straining altro non è se non una forma attenuata di mobbing nella quale non si riscontra il carattere della continuità delle azioni vessatorie, azioni che, peraltro, ove si rivelino produttive di danno all'integrità psico-fisica del lavoratore, giustificano la pretesa risarcitoria fondata sull'art. 2087 cod. civ., norma di cui da tempo è stata fornita un'interpretazione estensiva costituzionalmente orientata al rispetto di beni essenziali e primari quali sono il diritto alla salute, la dignità umana e i diritti inviolabili della persona, tutelati dagli artt. 32, 41 e 2 Cost. (v. Cass. 4 novembre 2016, n. 3291 e la recente Cass. 19 febbraio 2018, n. 3977); così nelle decisioni citate è stato precisato che non integra violazione dell'art. 112 cod. proc. civ. l'aver qualificato la fattispecie come straining mentre in ricorso si sia fatto riferimento al mobbing,  in quanto si tratta soltanto di adoperare differenti qualificazioni di tipo medico-legale, per identificare comportamenti ostili, in ipotesi atti ad incidere sul diritto alla salute, costituzionalmente tutelato, essendo il datore di lavoro tenuto ad evitare situazioni ‘stressogene' (…) nella fattispecie, dunque, non poteva essere considerata preclusiva di una valutazione della condotta datoriale come straining la prospettazione, nel ricorso di primo grado, di tale condotta come mobbing, non sussistendo alcuna novità della questione.